Ormai viviamo nell'illusione del rischio zero
di Lorenzo Gioli

Al giorno d'oggi, tantopiù in questo anno e mezzo di pandemia, viviamo nell'illusione del rischio zero. Non accettiamo più l'idea della morte e della sfida che costituiscono l'essenza stessa della vita. Lo aveva già compreso, con largo anticipo, Massimo Fini: "La nostra - scrive Fini - è la prima società a non aver elaborato una cultura della morte. Semplicemente la rimuove. Perché la morte (...) non sta nel quadro della società del benessere e del mito illuminista che ha stolidamente proclamato un edonistico e inesistente 'diritto alla felicità'. Che felicità ci può essere se poi a conti fatti, sia pur con qualche dilazione, si muore lo stesso? La morte è stata quindi proibita. Interdetta. Scomunicata. Dichiarata pornografica" (Ragazzo, Storia di una vecchiaia). Non la si nomina più neanche nei necrologi: si è spento, ci ha lasciati, è scomparso. L'abbiamo rimossa, dichiarata fuorilegge perché ne rifiutiamo l'ineluttabilità. Ciò accade da molti anni. Tuttavia, a rendere ancor più evidente questo fenomeno è stato il Virus che, al di là della retorica sulla guerra da vincere, non abbiamo per nulla affrontato con spirito bellico e churchilliano.
Nel Secolo Scorso i nostri nonni e bisnonni la sera uscivano, andavano al cinema, frequentavano i ristoranti. Si divertivano. Consapevoli del rischio di queste attività nel pieno di una Guerra Mondiale: bombardamenti, sparatorie, occupazioni militari e via dicendo. Eppure sì, correvano il rischio perché non si può non vivere per paura di morire. Immaginate cosa sarebbe accaduto se il popolo britannico, con il Nazismo alle porte, avesse disatteso per pavidità l'appello di Churchill alla Resistenza: "Combatteremo sulle spiagge. Combatteremo sulle piste d'atterraggio. Combatteremo nei campi e nelle strade. Combatteremo sulle colline. Non ci arrenderemo mai". Oggi su Westminster sventolerebbe la croce uncinata e la Libertà sarebbe un lontano ricordo. Per loro ma anche per noi. Se avessero pensato solamente alla salute, gli inglesi non sarebbero mai giunti a Dankerque, con imbarcazioni di fortuna spesso inadatte a solcare l'Atlantico, per soccorrere i fratelli britannici e francesi. Se nel momento del bisogno gli americani avessero pensato al pollo fritto per il Giorno del Ringraziamento, probabilmente l'Europa sarebbe ancora sotto dittatura.
Oggi invece, dopo settant'anni di assoluto benessere, la guerra l'abbiamo persa. Non perché il Covid non verrà sconfitto. Presto o tardi, grazie ai vaccini, usciremo da quest'incubo. No, mi riferisco ai tempi cupi che ci attendono nei prossimi mesi. Da un lato la crisi economica. Dall'altro le sottovalutatissime conseguenze psicologiche di noi giovani costretti davanti a uno schermo e privati di ogni socialità. Davvero pensiamo di risolvere questi problemi con un "bonus psicologo"?
Tutto ciò è figlio della cultura del rischio zero, da cui derivano anche gli allarmismi di questi giorni su AstraZeneca: tre morti di trombosi su un milione di vaccinati. Anche se esistesse una correlazione fra siero e malattia ed è tutto da dimostrare, sarebbe un rischio statisticamente irrilevante. Eppure, la reazione dei molti italiani che hanno disdettato la propria dose era assolutamente prevedibile. È un rapporto causa-effetto. Se per più di un anno descrivi il Covid come una Peste incurabile, basteranno tre morti di trombosi per scatenare il panico. Non siamo più abituati a combattere, a vivere e a morire. Ed è questo, ahimè, il dramma del nostro Tempo.