Il vecchio Clint e le ipocrisie del nostro tempo
di Lorenzo Gioli

Fino a ieri sera, per via dei numerosi impegni scolastici che mi hanno visto occupato negli ultimi mesi, non avevo ancora avuto modo di vedere l'ultimo piccolo capolavoro di Clint Eastwood: il corriere - The Mule. Già, un piccolo capolavoro. E lo dico senza alcuna forma di retorica. Perché questo film dalla trama apparentemente ordinaria e forse quasi scontata - in fondo tratta delle peripezie di un anziano giardiniere che, all'età di quasi novant'anni, decide di diventare un corriere della droga per un cartello messicano nel tentativo di saldare i debiti - offre notevoli spunti di riflessione sulla società di oggi, sulle sue piccole ipocrisie, sulla banalità del male, sull'anima sfaccettata di un uomo qualunque, come posso essere io che scrivo o tu che leggi. La vicenda narrata nella pellicola di Clint ha come protagonista il personaggio immaginario di Earl Stone (un veterano della guerra in Corea che è diventato un orticoltore coltivando la propria passione per gli emerocallidi, fiori che sbocciano al mattino e muoiono la sera), ma si ispira a una storia realmente accaduta, una storia in cui si rispecchia la fragilità dell'animo umano: come può una persona anziana, navigata, che ormai conosce l'ordine delle cose, quindi anche ciò che è giusto e sbagliato, diventare un narcotrafficante trasportando cocaina a bordo della proprio pick-up dall'Indiana a Chicago? La verità, posto che ve ne sia una, è che non esiste una risposta precisa. Come non esistono risposte precise alla maggior parte delle nostre domande esistenziali. Dal mio punto di vista, nella scelta di Earl giocano prevalentemente due fattori.
Il primo, forse il più banale ma anche quello che gli anziani spesso non ammettono, è il divertimento. Provare i brividi della gioventù, avvertire emozioni che un vecchio non si sarebbe mai più sognato di assaporare: il pericolo; sentirsi importante, anche se in una comunità di delinquenti messicani; la riscoperta del sesso. Insomma, i piaceri della giovinezza.
Secondo aspetto, in cui si riflette la tragedia di un uomo apparentemente brillante e sarcastico: il fallimento a casa propria - come marito e come padre - contrapposto al successo sul lavoro. Che te ne fai dei quattrini, di una bella casa, del potere, delle strette di mano e dell'apparenza (quest'ultima uno dei cancri del nostro presente) se poi non hai una moglie con cui confidarti o una figlia da accudire, da accompagnare nel suo percorso di vita?
Domande a cui Earl riesce a trovare risposta in un finale asciutto che, senza essere strappalacrime o fintamente struggente, suscita nello spettatore un senso di commozione e di tenerezza. Sentimenti assai difficili da trasmettere. Eppure, come non provarli di fronte al coronamento della vita di un uomo? Un uomo normale, un uomo dotato di pregi e di difetti. Un uomo che chiama una famiglia di colore "negri", senza per questo rinunciare ad aiutarla nel momento del bisogno. Un uomo che scambia una lesbica per un "giovanotto", ma che una volta scoperta la verità non esita a sorriderle divertito.
Zero nomination al capolavoro di Clint, artisticamente inferiore - secondo i giudici dell'Academy - al Black Panther di Ryan Coogler, un cinecomic premiato non tanto perché riesca ad intrattenere (chi scrive, come penso anche molti altri, ne è rimasto profondamente annoiato) quanto perché ha come protagonista un supereroe di colore (ma senza per questo riuscire minimamente ad avvicinarsi al grande cinema americano di denuncia, come, tanto per fare un titolo, La calda notte dell'ispettore Tibbs). Il conformismo dei giornali nazionali e stranieri non deborda soltanto sulle pagine di politica, ma anche su quelle di cultura e di cinema. È la dittatura del mainstream. Una dittatura che si nutre anche del nostro continuo bisogno del cellulare e dei social, di apparire smart e sempre al passo coi tempi, altro tema denunciato dal vecchio Stone che infatti si ostina a rifiutare il fenomeno dell'informatica rimproverando "voialtri" (o meglio noialtri: i giovani) di non essere più capaci di sostenere una conversazione a tu per tu, guardandosi dritti negli occhi.
Se nel linguaggio corrente chiamiamo "cane" un interprete che non è in grado di recitare, da oggi possiamo definire "mulo" un attore o regista che a più di novant'anni dà ancora il meglio di sé. Di gente così, al giorno d'oggi, ne avremmo bisogno in maggiore quantità. Se noi mosci e viziati millennial avessimo anche solo un briciolo della grinta e della vitalità del novantenne Earl/Clint, forse la nostra generazione non si troverebbe sull'orlo del baratro. In questo, ha senz'altro ragione Vittorio Feltri, altro scorbutico di talento: "Siamo pieni di coglioni, ma ci mancano le palle".