L'istruzione e un triste destino: in Italia della cultura non importa più a nessuno

05.01.2020

di Donatello D'Andrea

Le dimissioni del Ministro della Pubblica Istruzione del governo giallorosso Lorenzo Fioramonti hanno aperto una voragine non solo all'interno della maggioranza parlamentare altresì hanno scoperchiato un vaso di Pandora nel ben più complesso mondo della scuola italiana, da tempo bistrattata e lasciata ormai a sé stessa.La questione politica, quindi, in un Paese normale sarebbe il male minore. La scuola italiana, da diversi anni, versa in uno stato di lenta e inesorabile agonia a causa dei ripetuti tagli che i vari governi, che si son succeduti nel corso degli anni, hanno perpetrato a suo danno, nel vano tentativo di reperire risorse per far quadrare i bilanci. L'ex Ministro non ha fatto altro che quantificare "il danno". Ci vogliono 3 miliardi subito e altri 24 in totale per salvare l'istruzione italiana dal baratro.A questo vanno aggiungendosi gli impietosi studi, suffragati da inquietanti dati, di eminenti centri di ricerca internazionali relativi al declino dell'istruzione nostrana. Dal repentino aumento del numero degli analfabeti funzionali alla criminalizzazione di coloro che sono dotati di una certa cultura, sembrerebbe che in Italia studiare non sia più una priorità, anzi. La scuola nel nostro Paese non se la passa tanto bene e, cosa ancor più grave, questo sembrerebbe non interessare proprio a nessuno.

Il casus belli politico

Le dimissioni di Fioramonti sono state rassegnate la sera del 23 dicembre con l'invio formale di una lettera al Premier Conte, ma l'ex Ministro avrebbe deciso di attendere qualche giorno prima di rendere pubblica la sua decisione per una questione di "rispetto istituzionale". Fatto sta che, dopo aver lasciato il suo incarico al dicastero della Pubblica Istruzione, l'ex ministro ha avuto l'ardire di annunciare la sua intenzione di formare un gruppo parlamentare autonomo ma filo-governativo a sostegno del Premier Conte, lasciando il Movimento Cinque Stelle.Una decisone alquanto strana che potrebbe essere riassunta così: "Sostengo il Premier ma non mi riconosco più nei valori del Movimento e nell'alleanza PD-M5S". A Fioramonti sono successi ben due ministri, come da volontà espressa da Giuseppe Conte: uno alla scuola (l'ex sottosegretaria Lucia Azzolina) e uno all'università e alla ricerca (il Presidente della conferenza dei rettori Gaetano Manfredi).L'ex ministro ha motivato con un post su Facebook il motivo per cui ha deciso di rassegnare le sue dimissioni e, forse, di uscire dal suo partito. "Ci vuole più coraggio da parte del governo". Lui chiedeva ben 3 miliardi, "il minimo sindacale" per far sopravvivere l'istruzione italiana su una spesa necessaria di ben 24 miliardi. In manovra ne sono stati stanziati appena due, anche se non in modo organico.Il giorno dopo le dimissioni sono arrivate, ovviamente, le prime reazioni da parte del mondo politico e giornalistico che da un lato hanno plaudito il coraggio del grillino di lasciare volontariamente la poltrona in nome della coerenza e, specularmente, dall'altro sono piovute critiche e piccanti retroscena che mirerebbero a smontare la nobiltà d'animo dell'ex ministro. Nel M5S c'è chi ha creato una polemica adducendo come motivazione il fatto che lui non abbia restituito alcune decine di migliaia di euro alle casse del Movimento, in nome del fondante principio grillino secondo cui il politico deve restituire parte dello stipendio. Secondo il sito tirendiconto.it Lorenzo Fioramonti non verserebbe denaro da gennaio 2019. Non è l'unico grillino, va precisato, a non aver onorato tale impegno.Al di là delle motivazioni squisitamente politiche, personali o morali, dietro tale gesto, le quali restano prerogativa degli italici gossippari, interessati più alla forma che alla sostanza, ciò che dovrebbe saltare giustamente all'occhio è il fatto che questo governo è sostenuto da una maggioranza sempre più eterogenea. Dall'embrionale patto PD-M5S, si è passati ad un governo sostenuto da una serie di forze totalmente diverse tra di loro e accomunate, forse, dall'unico obiettivo di evitare temporaneamente le elezioni. Da Italia Viva, con Renzi che un giorno stuzzica il governo e l'altro pure, al futuro gruppo dell'ex ministro dimissionario, il quale non si riconosce più nel programma politico dei giallorossi ma che comunque continua a sostenere il Premier Giuseppe Conte che, dal canto suo, ha sottolineato l'inutilità di queste micro-formazioni, delle mine vaganti pericolose per la stabilità di qualsiasi esecutivo.Infatti, la storia di questo governo ci insegna che non ci si può fidare di nessuno. Qualche settimana fa, tre senatori grillini lasciarono il Movimento per aggregarsi alla Lega, rea di aver fatto un'eccezione da quando Salvini chiudeva "i porti" ai voltagabbana. Inoltre, dall'inizio di questa esperienza governativa il peso parlamentare (e non politico, visti i sondaggi) di Italia Viva sta crescendo sempre di più, a causa degli "esuberi" di Forza Italia e dei renziani del PD, mettendo a serio rischio l'esecutivo giallo-rosso, soprattutto a causa della forte ambizione di Matteo Renzi e delle malelingue che lo vorrebbero seduto ad un tavolo con l'altro Matteo, pronto a congiurare contro il buon Giuseppi. Se un giorno l'amore per quest'ultimo da parte di Fioramonti dovesse soccombere in favore di un viscerale odio politico (si fa per dire), potremmo dire addio all'ennesimo deputato, o deputati se il suo gruppo avrà un seguito, a sostegno di una maggioranza già nata zoppa?

Anche il momento, però, non ha sorriso all'infausta decisione da parte dell'ex ministro di abbandonare capra e cavoli. Secondo eminenti accademici, come Paolo Becchi, le dimissioni erano nell'aria ma son stati sbagliati i tempi. Fioramonti non era un grillino della prima ora, anzi. E' un tecnico, scelto da Di Maio (che non l'ha mai visto di buon occhio) nel momento in cui il Movimento Cinque Stelle aprì agli specialisti. In particolare, l'ex ministro, nel corso di questi mesi avrebbe progettato la formazione di un nuovo gruppo parlamentare a sostegno di Giuseppe Conte su richiesta di quest'ultimo. Ovviamente il Premier ha respinto una tale supposizione. Innanzitutto per formare un gruppo parlamentare, reclutando venti deputati, ci vuole tempo e le dimissioni tempestive da parte di Fioramonti fanno presagire che qualcosa sia andato storto. Inoltre, se il Presidente del Consiglio avesse voluto annunciare una nuova formazione, avrebbe dovuto e potuto farlo in procinto di tornare al voto e non adesso, smentendo le sue precedenti affermazioni relative all'inutilità di dar vita a micro-gruppi instabili e pericolosi per la stabilità dell'esecutivo.

Come si evince dalla mole di ipotesi prodotte, il mondo del giornalismo italiano si è scatenato sulla vicenda, tra tesi, congetture e supposizioni, le quali, se di senso compiuto, avrebbero comunque potuto giovare alla discussione. Ciò che però i giornali hanno perso totalmente di vista è il fulcro attorno al cui ruotano le dimissioni di Fioramonti: la situazione della scuola italiana.

Il triste destino del Paese di Dante...

"L'Italia era una terra di Santi, Poeti e Navigatori. Oggi, però, questo sembrerebbe essere diventato il luogo natio di analfabeti funzionali, ignoranti e odiatori seriali, i quali ripudiando la cultura, troppo radical chic, rivendicano una purezza originaria in nome di uno slogan tanto triste quanto inquietante: "i professoroni hanno rovinato il Paese".

La premessa in quattro righe riassume, con pungente sarcasmo, la situazione della scuola in Italia. Il Paese che ha dato i natali ai più grandi artisti, poeti e letterati della storia è diventato preda degli analfabeti funzionali, i quali soggetti a inspiegabili deliri di onnicomprensività, rifiutano di informarsi oppure, ancor più grave, non sono capaci di comprendere ciò che hanno appena avuto modo di leggere.

A questo proposito, il nuovo rapporto OCSE parla chiaro: "Gli studenti italiani oggi non capiscono quello che leggono". Le rilevazioni PISA sugli studenti quindicenni hanno fotografato una nazione in profonda crisi culturale: punteggi davvero miseri in scienze e letteratura. Va meglio per quanto riguarda la matematica. La media OCSE in letteratura sfiora i 490 punti, gli italiani si fermano intorno a 476, posizionandosi ben oltre il ventesimo posto tra i Paesi OCSE. Una sconfitta per un Paese con la nostra storia e la nostra cultura. Tradotto in parole povere, solo uno studente su venti riesce a comprende un testo, molto meno rispetto alla media OCSE. I restanti 19 ragazzi, invece, incontrano notevoli difficoltà nell'identificare, per esempio, l'idea principale di un testo di media lunghezza. E' grave.

Il Responsabile della Direzione istruzione dell'OCSE, Andrea Schleicher, ha rilasciato un'intervista al Messaggero nel tentativo di spulciare e spiegare i dati ricavati dalla suddetta ricerca. E' stato davvero molto schietto nel momento in cui ha sottolineato come "il 6% degli studenti riesce a distinguere i fatti dalle opinioni", come se gli studenti siano convinti del fatto che studiare serve a poco nella vita. Inoltre, l'Italia vanta il triste record delle assenze scolastiche da parte degli studenti e, come se non bastasse, il fatto che uno studente su quattro non sa nemmeno leggere. Una bella pubblicità per quella scuola, che in passato, veniva considerata un'eccellenza.

L'OCSE, in aggiunta, scrive che nei prossimi dieci anni ci sarà un milione di studenti in meno, i quali verranno seguiti da quasi metà del corpo docenti che andrà in pensione. Chi però se la passa davvero male è l'università. In questi ultimi anni sono stati fatti dei progressi: oggi il 39,2% degli iscritti non paga le rette e la percentuale di laureati della fascia d'età 25-34 anni è passata dal 19% del 2007 all'attuale 28%. Il problema, però, è che l'Italia continua ad essere almeno dieci punti lontana dalla media Europea di studenti laureati (39%).Senza contare che le rette sono tra le più alte d'Europa e che il numero di laureati in una fascia più ampia, quella tra i 19 e i 64 anni, non supera il 19% (rispetto ad una media europea del 37%). Non solo: l'università non sempre riesce a garantire un'occupazione e, quando lo fa, non garantisce uno stipendio significativamente più elevato rispetto a chi ha deciso di non continuare.Coloro che fanno più fatica sono i ragazzi che si laureano nelle materie artistiche e umanistiche. Solo il 72% dei primi e il 78% dei secondi hanno un lavoro. Al contrario, la percentuale aumenta fino all'84% per coloro che frequentano facoltà scientifiche (su tutte ingegneri e informatici).L'Italia è anche il Paese con uno dei numeri più alti di giovani che non studiano, non lavorano e non fanno nulla per cambiare la situazione, i cosiddetti NEET. Secondo l'OCSE, sono l'11% dei giovani tra i 15 e i 19 anni, soprattutto nelle zone del Sud Italia, "dove essere NEET viene più facile" a causa della disastrosa condizione delle scuole e delle scarse possibilità lavorative. Fanno parte dei NEET anche il 37% delle ragazze tra i 25 e i 29 anni e il 26% dei loro coetanei uomini.Anche i docenti, come anticipato, non se la passano meglio. Il rapporto dell'OCSE evidenzia che la categoria degli insegnanti è mal retribuita e quasi il 60% dei docenti ha almeno 50 anni: i giovani non riescono a farsi spazio. La percentuale di insegnanti tra i 25 e i 34 anni è la più bassa dell'area OCSE. Per non parlare degli stipendi. Il 68% del corpo docenti ritiene insufficiente la propria retribuzione e richiede che questa venga equiparata a quella della altre cariche del pubblico impiego. Con Quota Cento, il turnover è aumentato, ma un vero ricambio generazionale, in una situazione del genere, richiede tempo.Il nostro Paese, come se il contesto non fosse già grave di suo, presenta almeno altre due inquietanti evidenze: 4 persone su 10 tra i 25 e i 64 anni non possiedono un diploma e il 14% di coloro che hanno terminato gli studi secondari di primo grado ha preferito non intraprendere nessun percorso di studio superiore. Come può, una platea del genere, elaborare un pensiero critico senza cedere alle pressioni e alle influenze di campagne elettorali martellanti facenti peso sulle emozioni e sulla propaganda?

Le responsabilità della politica

Ed è proprio in questo frangente che si collocano le responsabilità della politica. Nel corso degli anni le classi dirigenti che si son susseguite hanno preferito tagliare continuamente e irresponsabilmente fondi alla scuola per finanziare altri settori, sicuramente meno strategici di quelli della formazione, vera ninfa vitale di una democrazia.
Seppur un popolo ignorante si presenti come il più addomesticabile di tutti, poiché crede ad ogni singola castroneria che il politicante di turno proferisce (un pò quello che sta succedendo in questo momento in Italia, manco a farlo apposta), le esigenze di bilancio, che hanno interessato il nostro Paese in periodo di crisi, farebbero parzialmente credere ad un'impostazione diversa del discorso dei tagli. Il repentino calo degli investimenti è cominciato nel 2009, quando l'Italia ha cominciato a sentire il fiato sul collo da parte di Bruxelles. Da lì, nel giro di pochi anni (tra il 2010 e il 2016), gli investimenti nell'istruzione sono calati di quasi il 10%. 
La spesa pubblica italiana per l'istruzione continua a essere tra le più basse dell'Ue, lo ha detto la Commissione Europea in un suo rapporto del 2018. L'Italia ha avuto il barbaro coraggio di investire nella scuola solo il 3,6% del PIL (3,9% nel 2016 rispetto ad una media UE del 4,7%) contro una media OCSE del 5%. Solo la Grecia fa peggio di noi. Gli investimenti italiani sono ben al di sotto della media e a volte anche i più bassi. Gli stipendi dei docenti sono tra i più bassi d'Europa, mentre la spesa per le università e la formazione applicata, quindi per il "terziario" è la più bassa d'Europa dopo il Regno Unito: appena lo 0,3% del PIL nel 2016, contro una media europea dello 0,7%.
Ma la cosa più grave che si può notare dai dati è che nel 2009, mentre l'Italia si accingeva a diminuire la sua spesa annuale per l'istruzione di 6 miliardi di euro per prossimi 8 anni (da 72 a 66 miliardi), gli altri Paesi dell'Unione Europea, come Francia, Germania e Regno Unito, si apprestavano a fare il contrario e cioè ad aumentare tale spesa di diversi miliardi di euro. Quindi se da un lato i nostri vicini hanno ritenuto criminoso raccattare fondi per sostenere i bilanci dalla scuola, settore che economisti e politologi sostengono fondamentale per lo sviluppo, i politicanti italiani hanno, invece, fatto il contrario. Questo basterebbe ad identificare la caratura morale di coloro che si son susseguiti all'interno dei Palazzi del Potere nel corso di questo decennio.
La verità è che della scuola, in Italia, non importa più niente a nessuno. Una situazione del genere, farebbe scendere in piazza milioni di manifestanti. L'istruzione e la cultura rappresentano le fondamenta di una società coscienziosa, che non si fa soggiogare dal potere politico. Invece, in Italia, il Paese della percezione per eccellenza, coloro i quali sono in grado di elaborare un pensiero di senso compiuto vengono sottoposti alla gogna mediatica, in una versione moderna di "caccia alle streghe" che poco giova ad un dibattito libero, aperto e democratico. Dunque, a cosa serve la scuola se coloro che si prodigano per lo studio, alla fine, sono "solamente degli inutili e saccenti mantenuti figli di papà?".
Insomma, al di là della flebile reazione politica dei grillini nei confronti dell'evento politico in sé, le dimissioni di Lorenzo Fioramonti hanno avuto il merito di squadernare le cifre del declino del nostro sistema scolastico. Affinché la scuola italiana possa uscire dal suo stato d'emergenza, è necessario mettere da parte le necessità politiche, che hanno visto nella Pubblica Istruzione l'ennesimo bacino di voti clientelari, intervenendo radicalmente per garantire alle generazioni avvenire un futuro in cui è lecito sognare.